finale monologhi

Sabato 22 Febbraio | 20:30

Lo spettacolo inizierà 30 minuti dopo l'orario indicato.
Acquista o prenota la tua poltrona alla biglietteria ai numeri 0655340226 e 3711793181

BELLI CORTI QUARTA EDIZIONE
Premio promosso dal Nuovo Teatro San Paolo per individuare voci nuove nel panorama della drammaturgia contemporanea.

Nel 2017 viene lanciato il bando “Belli Corti” riservato ad autori di corti e monologhi teatrali che vengono messi in scena dagli allievi registi e attori dell’accademia.
La quarta edizione prevede 16 corti e 16 monologhi selezionati dalla Direzione artistica del Nuovo Teatro San Paolo, in 6 serate appositamente dedicate e aperte al pubblico.

Nelle 6 serate una giuria di qualità, composta da autori, registi, attori e critici teatrali selezionerà i finalisti delle due sezioni, che accederanno alle serate finali nelle quali saranno premiati il corto e il monologo vincitore.

LA DEMENTE
Di Mimmo Cacciola
Regia Patrizia Guardati
Con Daniela Calvani

SCHIAFFO
Di Giovanna Manfredini
Regia Giorgia Francozzi
Con Caterina Rugghia

SCHIENA
Di Maria Porzio
Regia Micaela Seganti
Con Federica Di Lascio

LEZIONI DI POESIA
Di Luigi Salerno
Regia Simone Carchia
Con Riccardo Benforti

LA PROPRIETA'
Di Roberto Disma
Regia Cleofe Giambenedetti
Con Sara Valenti

CHIARA PROIETTI
Di Rosalba Alessandroni
Regia Savina Retica
Con Giuliana Mancuso

NON DESIDERARE LA ROBA D'ALTRI
Di Flavio Bulgarelli
Regia Chiara Ventura
Con Bruno Barbaro

TUTTI I SEGRETI DI BILLY SHAKE
Di Roberto Gavelli
Regia Lorenzo Garufo
Con Andrea Gasperini

LA GIURIA

CRISTIAN CERASOLI Autore
ROSALINDA CONTI Drammaturga
ANGELA FAVELLA Attrice
SILVIA SCALAMONTI Critico
GIUSEPPE ANTELMO Casa dello spettatore
FLAMINIO BONI Critico
ANGELO SORINO Autore, Attore e Doppiatore

RECENSIONE

Di Sebastiano Biancheri

Brividi, furore e parodia del dramma al festival dei monologhi.
Al Nuovo Teatro San Paolo di Roma la quarta edizione del concorso "Belli corti".
Nell’ambito della quarta edizione del concorso nazionale di nuova drammaturgia “BELLI CORTI”, la sera del 22 febbraio 2020 al Teatro Nuovo San Paolo di Roma si è svolta la finale della sezione monologhi. La manifestazione si concluderà sabato 29 febbraio con la premiazione degli otto corti finalisti.
La Direzione artistica del teatro con queste iniziative soggette a bando intende promuovere e valorizzare testi teatrali inediti e soprattutto originali di autori che si avvicinano all’arte del teatro, si confrontano con la realtà contemporanea sperimentando in modo propositivo ed arguto e mettono a disposizione quel valore aggiunto di temerarietà che aiuta ad innovare e distinguersi. E’ un’avventura esaltante in un panorama che reclama idee e soffre da tempo il ricambio generazionale.
La messinscena è affidata ad attori e registi che frequentano i corsi interni di laboratorio avanzato di recitazione.
Anche in questa occasione a presentare l’evento è stata l’attrice Lisa Recchia, affiancata da Francesco Casella, promettente attore proveniente dal medesimo teatro, distintosi nella precedente edizione con l’interpretazione di ‘Fegato’ .
Al termine della kermesse conclusiva che riproponeva gli otto monologhi finalisti, Il pubblico presente in sala ha dato la preferenza a ’Non desiderare la roba d’altri’ di Flavio Bulgarelli. Una giuria esterna, composta da professionisti del settore e critici teatrali, ha consacrato ‘La proprietà’ di Roberto Disma miglior testo della manifestazione. Il premio Lorenzo De Angelis per la migliore interpretazione è andato ad Andrea Gasperini. Lorenzo De Angelis è stato un giovane attore e doppiatore recentemente scomparso, già allievo del Nuovo San Paolo.
La giuria, presieduta da Cristian Ceresoli, autore de "La Merda", pièce pluripremiata, che ha trionfato al Fringe Festival di Edimburgo, era altresì costituita da Rosalinda Conti(drammaturga), Angela Favella(attrice), Silvia Scalamonti(critico), Giuseppe Antelmo(casa dello spettatore), Flaminio Boni(critico) e Angelo Sorino(autore attore e doppiatore).
Queste nel dettaglio le opere giunte in finale e rappresentate nell’ordine.

LA DEMENTE
, di Mimmo Cacciola, regia di Patrizia Guardati, con Daniela Calvani.
E’ il dramma devastante che sconvolge l’ultima parte di vita di chi viene colpito dal morbo di Alzheimer e provoca la degenerazione delle funzioni cerebrali, la perdita della memoria, la metamorfosi repentina del comportamento, i cambiamenti di umore, la depressione, l’isolamento sociale. Una morte civile per il paziente e i suoi familiari. Protagonista è Aurora, una donna ancor giovane, un’insegnante costretta a lasciare la cattedra. Consapevole del dramma che incombe precoce e che la sua è una cambiale a scadenza, deve portare a termine gli ultimi adempimenti prima che il sipario si chiuda. Affronta gli stadi della malattia lottando disperatamente contro il destino e contro il tempo. Prova a modificare il suo stile di vita, come prescrittole, esercita la mente e il fisico, assume farmaci palliativi, adotta ogni accorgimento per contrastare quel male oscuro e subdolo che ne sta compromettendo le residue energie. I suoi studenti, che le riempivano la vita, ora la invadono come fantasmi allucinati. E’ ormai In preda ad afasia, a confusione persistente, i ricordi sbiaditi, sempre più sconnessi, perduti per sempre. Il finale, un controcanto venato di malinconia e rispettosa ironia, riconduce al mistero dell’esistenza, ai contrasti che alimentano interrogativi e non avranno risposte. Quando il corpo annientato perde consistenza e si allontana, sarà l’anima, quel sacro e trascendente altrove che accompagna l’essere nello svanimento, a prolungare la vita e riempire di senso l’ignoto. Dialogare con l’anima per trattenere e custodire il ricordo sarà, in chi rimane, la cura e l’illusione più grande. Una struggente elegia interpretata con tenera veemenza da Daniela Calvani.

SCHIAFFO, di Giovanna Manfredini, regia di Giorgia Francozzi, con Caterina Rugghia.
Alice è una giovane attrice alle prese con un regista disattento e contorto che le chiede   di raccontarsi. Sarà un’audizione tormentata e interrotta, come la sua breve vita, riempita da un’assenza lacerante, insopportabile, quella di un padre inesistente e agognato. Alice è un albero senza radici, canna al vento protesa in un vano abbraccio che allontani da lei i turbamenti. Nell’attesa di dare un volto a quella figura sconosciuta e sleale che l’ha abbandonata, di pronunciare la parola a lei più cara. Il viaggio trepidante alla ricerca di lui, i pochi soldi investiti per avere sue notizie. Alice immagina il momento più atteso e, mentre interpreta se stessa, il regista distratto interrompe l’incantesimo con le sue paranoie. I maschi sono tutti uguali, egoisti e ossessionati dai loro timori, non concedono spazio né tempo agli affetti. Il sogno svanisce in un incontro mancato, la delusione è devastante. Ma non c’è scampo. La soluzione sarà fingere, seppellire il passato di dolore sotto una montagna di copioni, essere tutti per non diventare nessuno: mille volti e nessuna radice. Apparterrà all’arte, per sempre. L’arte, bene rifugio nei momenti più bui. Sarà quello il destino prescelto, ‘ il mio schiaffo per te, papà.’ E’ un testo penetrante e malinconico; garbata e commovente l’interpretazione della deliziosa Caterina Rugghia.

SCHIENA, di Maria Porzio, regia di Micaela Seganti, con Federica di Lascio.
Una insolita festa di compleanno senza invitati, in cui nessuno è presente, diventa l’occasione per Maddalena di ripercorrere il dramma di una esistenza vissuta all’ombra di un uomo e della sua famiglia. Un amore a metà, clandestino e taciuto, fatto di mortificanti rinunce e attese negate La condivisione di momenti spezzati da pietosi inganni e lancinanti promesse. Maddalena è un gabbiano dalle ali grandi e bianche planato in un oceano di petrolio in cui si è infranta la sua dignità. Una bottiglia di whisky per annegare il rancore e il bisogno d’amore. Le fantasie che la sovrastano, il suo essere amante priva di diritti, i confronti con colei a cui quei diritti sono riconosciuti per titolo. E infine la visione della schiena nuda di chi si ricompone dopo aver mentito ancora, di chi è abituato ad andar via, a fuggire dalle responsabilità, a voltar le spalle buttando dietro di sé, con il proprio fallimento, le compromettenti verità di una storia parallela. La schiena di colui che se ne andrà per sempre lasciando Maddalena con la solitudine dei suoi 28 anni, a festeggiare, battendo le mani in platea, sempre più sola, il teatrino della vita altrui.
Federica Di Lascio è una Maddalena angosciata, risoluta e fragile, sopraffatta dal vuoto di un amore sbagliato.

LEZIONI DI POESIA, di Luigi Salerno, regia di Simone Carchia, con Riccardo Benforti.
Surreale narrazione di una spedizione punitiva per lavare i panni sporchi in famiglia. C’è un problema da estirpare finché si è in tempo, una madre apprensiva, un fratello maggiore esaltato e feroce, una sorella che si è smarrita in quel di Dobbiaco, dove, oltre a fare l’insegnante in una località disagiata, pare abbia relazioni particolari con gli studenti. E’ il viaggio allucinato di un viaggiatore in preda a disturbi ossessivo compulsivi con il macabro compito di esaurire il suo incarico. Un carnefice abietto che si fa Caino e una vittima inerme, inconsapevole e predestinata. Un disonore intollerabile che verrà risolto con violenza inaudita. Un’esecuzione preordinata     con lucida follia. Gli studenti di Alice andavano da lei per sentirla declamare le liriche di Antonia Pozzi, sventurata e diafana poetessa dei primi del 900. Da qui il titolo del dramma, una collana di poesie di quella che fu una voce isolata e disperata, succube di un ambiente familiare ostile. La sua fu una morte precoce e volontaria. Amava la montagna, Antonia, i suoi silenzi, i profili rocciosi, ’le pallide guglie’. Come Alice. Un destino tragico e comune. Grande interpretazione di Riccardo Benforti, un mattatore irrefrenabile, esagerato, che va ben oltre la scrittura. ‘Lezioni di poesia’ è, nell’intento dell’autore, metafora della lotta fra il bene e il male, una rivisitazione simbolica in cui si afferma la sopraffazione della cultura della violenza sulla fragilità della bellezza e dell’arte, celebrando così la morte della poesia e dell’innocenza. Ma l’originale tecnica narrativa adottata da Salerno, scrittore sensibile ed arguto, non effonde a pieno l’allegoria che rimane imbrigliata sullo sfondo, più annunciata che rappresentata, e che avrebbe dovuto significare con maggior convinzione nel lamento finale.

LA PROPRIETA', di Roberto Disma, regia di Cleofe Giambenedetti, con Sara Valenti.
Si racconta con beffarda ironia il tema della proprietà rivendicata a tutti i costi, del pregiudizio contro ogni ragionevole argomentazione. Una sorta di paralogismo univoco ed escludente, fondamento esemplare delle paure e delle insofferenze che percorrono le culture del benessere, immemori dei propri trascorsi. Un baluardo inattaccabile nei confronti di chi attenta alla sicurezza di un patrimonio materiale faticosamente raggiunto, puntello di tradizioni rivelate nonché di inviolabili convinzioni. L’approccio farsesco e dissacrante che la pulzella irriverente protagonista del monologo assume è di una teatralità contagiosa e imbarazzante. La mannaia dello sproloquio non fa differenza tra minoranze etniche, pellerossa o armeni, ebrei o immigrato di colore. E ancora: le squallide mistificazioni in nome di una civiltà superiore, il dubbio, che invece di tormentare le coscienze, rimuove ogni perplessità. E quindi, perché farsi domande? La sprezzatura di cui parla l’autore a margine del testo durante il dibattito a fine spettacolo è il distacco apparente di chi sospende pubblicamente un giudizio già personalmente assunto e rivela un’indignazione ponderata e ambigua, è la giustificazione di atteggiamenti difensivi pretestuosi, esibiti contro indebite intrusioni, a tutela di un equilibrio innaturale che appaga e rassicura. L’ignoranza disorienta, diviene scudo e alimenta il pregiudizio verso un universo che non conosciamo e da cui non vogliamo essere attraversati. La pièce ha il merito di sdrammatizzare un problema enorme senza per questo banalizzarlo, ma, al contrario, nutrendo la provocazione di slogan e tormentoni, mette in guardia da facili e pericolose semplificazioni. Bravissima Sara Valenti, già vincitrice nel 2019. Sarebbe fuori luogo domandarsi quale scuola di recitazione frequenti. Ho già espresso il mio pensiero in quella occasione. Il suo eloquio è come una litania disartrica, tra lo slow e il quick, stravolge ogni schema accademico, è un rullo che ammalia con tonalità ripetitiva e binaria alternata tendente all’aggressivo e alla tachilalìa; un fenomeno spiazzante, non replicabile. Ancora una volta pesca il jolly, ancora una volta dissacrante e senza freni, contribuisce a far vincere il premio della giuria a ‘La proprietà’ di Roberto Disma.

CHIARA PROIETTI, di Rosalba Alessandroni, regia di Savina Retica, con Giuliana Mancuso.
Chiara è una popolana romana. La sua casa è il Villaggio Breda, minuscola frazione della capitale. E’ cresciuta in un piccolo appartamento modesto ma decoroso all’interno di un agglomerato costruito in epoca fascista per gli operai dell’omonima fabbrica. Il suo gergo non mente. Porta con sé la fierezza e la bonomia della sua gente, è schietta ma anche puntigliosa, a suo modo integralista e diffidente in un mondo sempre più destinato a pensare in grande. E’ nata e vissuta in quella periferia e conosce ogni segreto, ogni crocicchio, ogni luogo d’incontro, così come le abitudini degli abitanti del quartiere, tutti importanti, tutti solidali. Una grande famiglia. Dal farmacista al ‘fruttarolo’. Racconta con nostalgia la sua infanzia semplice e felice. Non ha mai frequentato altri luoghi. Per lei lo straniero è chi invade la sua riserva naturale, sia che provenga da Torre Gaia o da Tor Bella Monaca. Il grande sbaglio della sua vita è aver sposato un giovane di Torre Angela, contravvenendo ai consigli della nonna. Un matrimonio riparatore finito dopo quattro anni. Un figlio da crescere senza alcun aiuto. La ferita insanabile, l’umiliazione che non risparmierà Chiara le verrà inferta dal suo bel pupone all’annuncio solenne di fidanzamento con una ragazza di buona famiglia. Ma le sue credenziali sono irricevibili: è originaria di Torre Angela. Chiara non sopravvive all’affronto e morirà di crepacuore. E’ lo spaccato paradossale, inverosimile di una realtà territoriale arroccata che accoglie ma al contempo vuole preservare, di un campanilismo anacronistico che resiste ad ogni intrusione. Giuliana Mancuso è una superba Chiara, macchietta spassosa e impertinente, fedele al personaggio.

NON DESIDERARE LA ROBA D'ALTRI, di Flavio Bulgarelli, regia di Chiara Ventura, con Bruno Barbaro.
Il prologo è già inquietante: le note hard di ‘Rage’ dei Twenty One sparate a palla, un giovane intento a sniffare coca, una bottiglia di whisky, il letto sfatto. E’ l’orrida ambientazione che prelude ad una confessione angosciante, straziante urlo di dolore e rabbia. E’ l’accusa feroce contro un padre sordo, onnivoro, prevaricatore, che risolve i problemi del figlio sempre e comunque senza chiedere permesso, che si sostituisce alle sue aspirazioni, ai suoi progetti, e glieli sottrae per sempre. Un padre che viola il segreto della vita del figlio, con un sentimento ambiguo di affetto e di possessione, abituato com’è a vedere materializzato ogni valore. La conoscenza per il dominio è in lui più forte dell’amore in sé della conoscenza. La felicità del figlio è un mistero alle cui soglie la ragione deve sostare, ammonisce Socrate, a cui soltanto l’Arte può attingere, al di fuori dell’ingerenza paterna, oggettivando il figlio con la sua autonomia di uomo. I ricordi del figlio, bambino e adolescente, sono nitidi. Il disagio, le umilianti punizioni   sono stilettate che affiorano impietose e non consentono riconciliazione né perdono. Non può esserci risarcimento affettivo per tanto male. Una presenza soffocante e autoritaria che annulla i desideri, le attitudini, i sogni. Un professionista insoddisfatto e mediocre non vale un musicista spiantato ma felice. ‘Cos’è un uomo?’ Cosa lo distingue dal non essere uomo? Si chiede il ragazzo. La risposta non prevede vie di fuga: ‘La libertà di scegliere il proprio destino’. Il monologo è incalzante e il suo culmine incombe. ’Io l’ho fatto a lui perché lui l’ha fatto prima a me’. Come in un gioco perverso che non ha più nulla di infantile e sa di premonizione, il sacrificio si compie. Il protagonista si spoglia degli indumenti come delle proprie paure; ha trovato finalmente la sua strada e la vendetta non può attendere. E’ ormai tardi per vivere la normalità invocata. Bel lavoro, un testo inizialmente tragicomico che l’abilità del regista e le doti altamente drammatiche del protagonista Bruno Barbaro conducono alle estreme conseguenze. Una moderna affabulazione edipica intrisa di colpe generazionali in un dramma familiare. Mi torna in mente l’ambizioso tentativo al teatro dell’Orologio messo in scena alcuni anni fa da Fabio Morgan Caselli e da Leonardo Ferrari Carissimi in ‘Tutti i padri vogliono far morire i loro figli’. Nell’analogo clima drammatico di una lacerazione interiore, il testo di Flavio Bulgarelli vince con merito il premio del pubblico.

TUTTI I SEGRETI DI BILLY SHAKE, di Roberto Gavelli, regia di Lorenzo Garufo, con Andrea Gasperini.
Trattasi di ‘introspective investigation’ fuori tempo massimo, esilarante parodia dell’Amleto. Un detective bislacco, da bassifondi, alla Philip Marlowe, deve indagare in incognito per risolvere un cold case, molto cold, trattandosi di Amleto e della scia di cari estinti che la vicenda comporta. Dal re di Danimarca a Polonio, e a seguire Laerte, Gertrude, Claudio, infine Amleto. E poi c’è la madre di tutte le morti, quella di Ofelia, la più imperscrutabile, avvolta nel mistero da troppi secoli. Billy Shake non è altri che lo pseudonimo del grande drammaturgo. La missione è di ripercorrere le trame diaboliche e le fantasie del bardo messe in campo durante l’elaborazione del suo capolavoro, al fine di esplorare le strategie adottate e intrappolarne il genio. Il colpevole, o meglio, il responsabile sarà smascherato, e il proverbiale colpo di scena farà piena luce sul grande imbroglio. Il nostro segugio passa al setaccio ogni indizio, approfondisce con puntuale meticolosità ogni mutazione umorale e sospetta dei personaggi, viene vagliata ogni traccia, nulla è lasciato al caso. Non può fidarsi delle apparenze. In una girandola di equivoci, depistaggi, finti dubbi amletici, scoperte imbarazzanti e sorprendenti o presunte tali, sarà l’enigma di Ofelia ad offrire al nostro l’assist vincente. Mentre il Marlowe ‘de noantri’, intento a tracannarsi una intera bottiglia di whisky, è sempre più sconvolto dall’alcool, si giunge al trappolone finale e alla conseguente incriminazione per tentata strage. Il caso è risolto: la sventurata Ofelia è rimasta vittima di un sacrificio rituale finalizzato alla magia nera del palcoscenico. Che ci sia lo zampino del vecchio Billy? Ardita contaminazione fra due generi, l’hard boiled e la tragedia, percorsa brillantemente dall’autore, Roberto Gavelli, che ha composto un testo eccentrico ed intrigante, di una comicità scoppiettante, avvincente fino alla soluzione finale. Andrea Gasperini è lo stravagante detective, caricaturale e funambolico, infaticabile e disinvolto. Vince il premio della giuria per la migliore interpretazione.

BELLI CORTI - PROGRAMMA COMPLETO

SEMIFINALE
BLU

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 25 Gennaio | 20:30

semifinale
verde

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 1 Febbraio | 20:30

semifinale
arancione

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Venerdì 7 Febbraio | 20:30

semifinale
gialla

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 8 Febbraio | 20:30

semifinale
azzurra

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Venerdì 14 Febbraio | 20:30

semifinale
rossa

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 15 Febbraio | 20:30

finale
monologhi

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 22 Febbraio | 20:30

finale
corti

4° Concorso di drammaturgia contemporanea

Sabato 29 Febbraio | 20:30

Indirizzo

Viale di San Paolo, 12
00146 Roma

Contatti

+39 0655340226
+39 371 1793181

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